lunedì 31 ottobre 2016


L'ISOLA


Qui non c’è niente.
Proprio niente.
Il mondo non manda più neppure un urlo, un battito.
Mondo, batti un colpo.
Niente. Qui tutto continua a oscillare col mare, e niente più.

All’inizio, lo ammetto, era una grande avventura. Fui io a convincerti. E chi lo nega?
Ma oggi è diverso. Certo sì, splende il sole... Come splende questo sole.
Non è che non mi piaccia il sole, anzi, guarda cara, la mia pelle si è anche abituata, non mi brucio più.

All’inizio, cara, era enorme questo mare, ci bastava, ci bastava la promessa che conteneva, bastava a questa casa semplice, bianca, ben riparata dal sole. Bastava ai lunghi giorni di fatiche, nel dolce impegno di amarti.
Allora era abbastanza, fare arrivare l’acqua, far crescere le piante, guadagnarsi ogni anno un mezzo metro d’ombra in più, la risposta a tutto era la fatica. Troppo tempo passato nella malinconia della città.

La odiavamo la città, ci lasciava senza fiato. E senza amore, quando troppa, troppa gente si metteva tra noi abitando il nostro destino.
È nella città che ti ho trovata, avevi poco sole sulla pelle e un tremore nervoso sul labbro.

Poi è arrivata l’isola, ci è fiorita dentro ancora prima che la raggiungessimo noi.
Sì, ora mi ricordo, ricordo perché l’abbiamo voluta, cercata.
Lo so, lo so cara che sei ancora la stessa, lo so che hai messo te nelle mie mani, che i tramonti ancora dicono “domani”.
Oh, perdonami, non potrei mai negare la bellezza dell’isola...

...O forse ci pensi anche tu?

Hai anche tu il sospetto che questa non sia davvero l’isola, ma un fondale dipinto? Una gabbia aperta che imita un’isola.
Lo vedi anche tu? Guarda l’ombra del fico, immobile, ha un occhio inquietante, non ti pare? E il mare, laggiù, dove finisce, là il mare, beh, mormora oltre...
L’isola si è presa le nostre vite, ingannandoci.

La fuga, te la ricordi? Come fu rapida, tanti anni fa cara. Ma come sarebbe lenta, e vile, oggi, per questi flutti. Non credi cara?
Lo so che non vuoi tornare da dove sei venuta. No, neanch’io vorrei.

Ma qui, guardati intorno, non c’è niente da far crescere, non c’è un’altra stagione da scoprire, e non c’è sasso che io non abbia tirato nel mare senza che prima o poi ritornasse alle mie mani.
Ora parlo la lingua di questi pescatori, e i tuoi capelli non sono cambiati di un filo.
Non invecchiamo forse noi cara? Eppure giurerei che proprio di invecchiare si stava parlando, e io voglio, lo voglio, invecchiare.
Qui abbiamo dimenticato tutto.

Ma stanotte l’orizzonte mi spia le budella, mi ha scoperto. Da quando siamo qui non l’avevo mai visto tanto lontano, era sembrato a portata di mano, e invece guardalo là, traditore, come bisbiglia di raggiungerlo ancora una volta.
Non so neppure io dove andare, anch’io qui ho casa e altrove non più. Non ti chiedo di distruggerla, cara, ma solo di viaggiare.


lunedì 24 ottobre 2016

VITA DA CANI


Il veterinario aveva detto che venivi su grande e grossa, 35 chili. Hanno detto border collie, alano, beagle, labrador, pitbull, english pointer, invece sei più uno di quei cani di ceramica nelle scene di caccia. Ma neanche a trovare tartufi sei buona, scavi buche di metri da seppellirci una famiglia, ma non trovi nulla che somigli a una cosa non dico preziosa, ma almeno utile.

A due mesi promettevi bene, ti sognavo atletica, alta, fiera, l’invidia del parco.
Invece stai diventando un Cacciatorino con le gambe, ti allunghi e non ti alzi, somigli tanto al 75 sbarrato col soffietto in mezzo.
In più cammini con l’orgoglio ferito, la testa bassa, la dignità non è che un ricordo atavico, sembra che ti fai schifo da sola, e la cosa non è elegante.
E come se non bastasse, sei pure vigliacca, lo vedo che quando un altro cane fa l’aggressivo, la tua sola strategia è fingerti morta, e resti in quello stato di morte apparente fino a che l’altro non scompare all’orizzonte.

Hai rischiato di chiamarti Girina, e quando è stato pronunciato “Ceci” ho concluso l’asta.
Cecilia? Ma quale Cecilia. A casa mia umani e bestie hanno nomi diversi.
Nessuna Cecilia, è Cecenia. Proprio così. L’amico mio che tu odi, è stato lui a scoprirlo, tu sei un Bracco Ceceno, usato come sminatore sulle montagne del Caucaso. E la faccia ce l’hai.

E poi ci sono gli altri nomi, Cujo, perché al buio voi cani siete tutti assassini, e Bracco Il Cane Stracco, perché sei in realtà un incrocio tra un bracco e un pigro.
E dopo questa, altre qualità in te non ne vedo.

Per il resto, da cane, puzzi da starti lontano, e anche se tu pensi che io ti abbia partorita, tu sei sempre una lurida bestia, concepita nel più brutale dei modi in un fetido angolo di terra, e io sempre da lurida bestia ti tratterò.
Cibo, se ce n’è, niente cappottino d’inverno, coccole quando va a me, botte quando mi fai incazzare. Curerò solo le malattie gravi, non andrò in sbattimento per i tuoi umori, ti abbatterò se morderai qualcuno, è un attimo che ti lego al guard-rail, non avrò riguardi per le tue piccole sofferenze di bestia.

Tra l’altro mi devi un sacco di soldi.

I tuoi occhi tristi, rossi e in discesa, con me non attaccano, volevo solo avvertirti.
Che a dire il vero ci ho anche provato a farmi una chiacchierata con te, su argomenti anche parecchio importanti, ma nulla mi toglie dalla testa che tu non stessi ascoltando.

Questo per dirti che apprezzo la tua amicizia, che a volte mi chiedi troppo amore e gioco, e io non amo giocare, e che non capisci un fico secco di quel che ti dico e questo ti rende perfettamente inutile, ma sai perdonare, gran cosa, buona amica.

Il nuovo bonus video fresco della settimana scorsa
con LUI
e con L’ALTRA



Non so più come dirvelo, Alberto Marotta è un genio, salviamolo dal canile





lunedì 17 ottobre 2016

ALLA NEBBIA


Alla nebbia
opaca
che ancora è buona quando copre
che ancora ci fa galleggiare
se dobbiamo navigare.

Alla nebbia
che maschera
e quasi culla
se sotto a nascondersi si agita
un qualche male.

Alla nebbia di passaggio
che dura un’ora e tiene dormienti
i demoni
che non vedi
che non senti

che ti avranno
presto o tardi.

Alla nebbia di alcuni
che forse vivono bene loro
alla loro nebbia dediti
nella nebbia esausti dal vagare
con gli orologi fermi.

Alla nebbia dunque,
ché anche la mia è qui
e dice taci
e mente
e mi soffia nell’orecchio
la canzone della demenza.

Io nella nebbia mi sveglio la notte
un lupo che mi morde una caviglia
lo sento appena e non lo vedo.
Così non urlo,
perché non ho male,
solo una sottile paura
che tutto finisca
col tacere per sempre.

lunedì 10 ottobre 2016

NON È UN PRANZO DI GALA




Guardate che facce, facce da derubati, violentati, affranti, sfiniti.
Hanno un desiderio che li divora, il desiderio di cambiare, di farla finita con i compromessi, con l’accettazione passiva, chiedono di vincere per una volta la loro sacrosanta battaglia.

E anche quando il tuo ex vivrà alla porta accanto, e saranno pacche sulla spalla, e sarà lui a raccoglierti col cucchiaino per i tuoi sogni infranti, per il tuo cuore spezzato, anche allora, la tua separazione non sarà un pranzo di gala.

Perché dovrai dire no, dovrai non esserci quando tuo figlio ti chiederà di esserci, e questo non dovrà dilaniarti, né consumarti poco a poco, perché saprai di essere nel giusto, perché dovrai rispettare e difendere zone di presenza e zone di assenza, difendere ogni tua scelta, perché tuo figlio possa credere a ciò che sei.

Mi stacco la figlia dalla caviglia un paio di volte la settimana, dice mi manchi. Un sorriso e un calcetto sono il dono che le faccio.
L’altra metà della separazione lo fa insieme a me, né colpe né debiti, non è più il tempo.
Niente più conti aperti, o quei conti riempiranno il cuore di tuo figlio.
Perché la separazione ti travolge se non la guidi.

Non potrai essere il genitore di prima, lo sarai di meno e lo sarai di più, lo sarai peggio e lo sarai meglio.
Non dovrai indennizzare la sua ferita, o non sarai credibile, non potrai nascondere la famiglia andata con l’ombra di essa.
No, non potrai tenere unito ciò che è diviso, dovrai al contrario disegnare un bel solco profondo dentro tuo figlio. E il giorno in cui hai tracciato quel solco non te lo dimenticherai finché campi.
Se sei arrivato fin lì, è perché non sei la moneta di scambio della sua felicità. Dunque non potrai esserlo adesso.

La separazione non è un pranzo di gala. Ci va lo stomaco forte. La separazione è a gran voce, sapendo di essere nel giusto, ed essere nel giusto ogni minuto ci vanno spalle larghe.
Dovrai scacciare i dubbi ogni fredda e grigia mattina, ti tremeranno le mani e dovrai restare fermo.

Avevo una figlia, ora ne ho due, quella del padre e quella della madre, e le amo entrambe.
Ho affermato la scelta consapevole come principio, se quel principio dovesse cadere, mi crederà sciocca.
Le ho mostrato la strada, se dovessi affogarla nella nebbia, si perderà.
Le ho insegnato il sacrificio e la frustrazione, la lotta per una scelta, per una convinzione, un sogno, se li renderò inutili, non me lo perdonerà.

Andate in metropolitana allora, e guardate quelle facce da non ne posso più.
Se hai deciso di cambiare, la separazione è la fase dopo, e quelle seguenti. È ghigliottina, Terrore, Termidoro e tutto quanto. Sono i piani quinquennali. La separazione è Culturale.
Personalmente preferisco la formula caraibica, c’è la musica, ma va difesa ogni giorno, embargo, Baia dei porci, attentati.
La separazione è in tutto il mondo, ed è permanente.

Perciò non andate in giro a chiacchierare di rivoluzione, se non avete la barra dritta.


lunedì 3 ottobre 2016

IL MORBO


La famiglia morbosa c’ha il morbo, il morbo della Famiglia.
È solita nominare se stessa così: La Famiglia, con l’articolo davanti.
Il morbo è pericolosissimo, quasi nessuno è immune, attecchisce anche nei soggetti più refrattari, anche in coloro che si sono già curati dal precedente morbo della precedente Famiglia, in cui sono nati. Forse è questo il motivo per cui, nonostante le cure, ricadono.

Più che una vera famiglia, La Famiglia è una cosca, con legami che non si limitano all’amore e alla protezione, ma si spingono a formule di appartenenza e possesso indiscutibili e al di sopra di tutto, scienza, morale, sentimenti, legge.

I suoi membri stanno sempre azzeccati tra loro, solo loro, e non si stanno mai fuori dal palle l’un l’altro. Questa prassi, che ricorda i Bizantini, soprattutto nel periodo oscurantista, gioca un ruolo importante nella crescita dei piccoli.
Di solito la fratellanza è incoraggiata fino a diventare gemellare, fratelli e sorelle devono fare tutto insieme, crescendo in un unisono rassicurante e impenetrabile.

La famiglia affetta da morbo è dogmatica: l’unica fonte di spiegazione della Famiglia si trova dentro la Famiglia stessa, che genera e garantisce la propria verità autofondandola, così come la verità del Corano è garantita dal fatto di essere stato dettato da Dio in persona.
Dentro La Famiglia tutto, l’alfa e l'omega, fuori di essa il nulla.

Il morbo le dà casa, le dà opinioni, e soprattutto il morbo la nutre.
La Famiglia mangia solo il cibo della Famiglia, o che ne abbia superato il consenso unanime, di tutto il restante commestibile non si fida e comunque, in caso si decidesse ad assaggiarlo, non le piace, perché ha papille impassibili che hanno prodotto enzimi apatici.

L’obiettivo unico e assoluto de La Famiglia è: La Famiglia. Non è in cerca di altri obiettivi, di cui essa sia strumento, non allevare persone uguali alle altre e che nelle altre si riconoscano, ma al contrario  che se ne difendano. Il traguardo non è immergersi nel flusso ampio, storico, cosmico, e comunque finalizzato all’appartenenza al mondo, facendosi mezzo per il cambiamento, bensì prepararsi alla difesa dal peggio, addestrarsi alla conservazione della Famiglia stessa.

Nella famiglia affetta da morbo vengono organizzate continuamente cose “di Famiglia”, che sono eseguite compatti e impermeabili a trasformazioni e modifiche.
La Morbo-Famiglia può andare in giro con una macchina sul cui lunotto posteriore sono appiccicati adesivi-icona che ne ritraggono i vari componenti, come a dire: Ti avverto, qui ci siamo noi e tu non hai l’adesivo, quindi non conti niente. E l’adesivo non te lo daranno mai, perché sono faccende di sangue, faccende di clan, dove chiunque non porti il marchio, porta una minaccia.

Il morbo costruisce in casa una piccola chiesa, con sacerdoti e liturgie e, come ogni religione rinnega le altre, anche il morbo struttura questa chiesa in forma escludente e soprattutto non ammette la possibilità che non esista religione.

La Famiglia è quanto di più noioso e sterile esista in questa nostra società bisognosa di cambiamento, bisognosa di sciogliere antichi nodi e di nuove filosofie.
La filosofia del morbo punta ad annientare ogni possibile rimasuglio di imprevisto annegando con esso ogni possibilità di evoluzione, in senso darwiniano, dei suoi membri, i quali sono scientificamente condannati a soccombere decadendo di generazione in generazione in una stirpe di inutili, il cui destino verrà divorato da coloro che sono disposti ad accogliere il cambiamento.

Questa famiglia malata di questo grave morbo fa solo il suo compito, il compito dei malati gravi, quello di portare a morte certa.