lunedì 19 dicembre 2016

LETTO DI SPINE


Farà freddo stanotte.

Lei ascolta canzoni
lei vuole partire
fa in frantumi la casa
lei deve partire.
Un grande viaggio
uno senza valigia,
cucina lacrime per cena.

E mentre cammina, dietro di lei
verità e menzogne si scambiano il posto
le contano i passi
le battono il tempo,
stanno intrecciando
perfidi
una quadriglia.

Lei non sa come lui
ci sia riuscito.

Segna un confine
mette la linea fragile
tra le rinunce e i desideri.

E un giorno si sentirà audace
si vede da fuori
la donna nuova che si incammina
sulla traccia inedita,
ne vede la figura
lontana
in fotografia.
Sente il sole che l’attraversa
come uno spettro.

E perché la pena sia meno impetuosa
finge che lui
sia andato morendo.
Lei vive invece
con la metà che le resta
metà persona e metà dolore.

Lei entra in un bar
senza di lui.
Lei davanti alle chiese
vien voglia di entrare
e inginocchiarsi.

Lui l’ha tradita
le ha costruito, intorno alla mente,
questa prigione.

Lei parla con tutti
conta i lampioni, le porte, le pulci
e lo fa lentamente
per far passare i minuti
ma lungo le pertiche della rovina
scendono rapidi solo
ricordi,
splendono e pungono senza avvertire.

Lei fuma appoggiata
al davanzale del suo balcone
lo sguardo di un sole si insinua anche lì
cercando quel lato del letto
intoccabile e sacro.

Lui se n’è andato,
la tazza di tè che si intiepidisce
sul tavolo, sotto il suo naso:
il conto aperto
con l’abbandono.

"No mamma sto bene
davvero, non son troppo magra."

Le balla nel cuore
la promessa d’un uomo.
Lei prega che torni,
ma anche così, nulla
verrà restituito.

Lei stringe i pugni
lei non sente ragioni
lei si sente arrabbiata.
Saperlo capace di dubitare
saperlo incapace di non mollare
le scioglie la mente nella vendetta.

"Scusa sai l’ora?"
ma il suo orologio è là
fermo nel ghiaccio
in cui ha scavato la sua scoperta:
il suo uomo partito
non era mai arrivato.

Allora salpare
tornare
“voglio una vita spericolata”

e vende il perdono alla libertà.


mercoledì 7 dicembre 2016

MANCO UN GRAZIE?


Sono stata dal medico, e nell'entrare in ambulatorio ho temuto che mi leggesse in faccia il mio NO, e per questo mi prescrivesse della cicuta invece dell'antinfiammatorio. Per lo stesso motivo, non credo che andrò a prendere la pizza per un po', non manderò mia figlia a scuola fino a carnevale, non sarò invitata ai cenoni di capodanno.

Se mi piace Salvini? Se voto come Brunetta? Ma io manco so che faccia abbiano Salvini e Brunetta. Se loro votano come me, beh, o sono diventati compagni, o come sempre inseguono un interesse.
Io ho altri interessi, e non mi faccio ricattare.

Io il mio No lo conosco bene, e non mi importa se i peggiori ci mettono sopra il loro cappello, se mi venite a dire che ho personalizzato il voto contro Renzi, che c'è Grillo dietro l'angolo, che ho mandato a monte il vostro Rinascimento.
Posso rispondere a ciascuna di queste cose.
Ma il mio punto è un altro.

NO, la Costituzione non si tocca, e se si tocca lo si fa in modo condiviso, non per iniziativa di un governo.
Sono romantica nei confronti della Costituzione italiana, ma non per romanticismo ho votato No, e non per romanticismo scrivo queste righe.

In realtà non scriverò nulla che non si possa tranquillamente trovare su un banalissimo manuale di educazione civica.

Mi stupisco piuttosto di voi, che odiavate Berlusconi, ma lasciate che Renzi gli metta a punto il programma, che temevate colpi di mano delle destre, ma li lasciate compiere ad un altro solo perché il suo volto e il suo stile sono più simili ai vostri.

Detesto la società che mi si è costruita intorno nei decenni che stanno trascorrendo, non ho molta fiducia in un futuro migliore, ma per malattia o per amore io non posso togliermi di dosso alcune cose: la fede (nell'uomo, che nella mia religione è Dio), e la rabbia.

E poche cose mi fanno più arrabbiare di chi tocca la Costituzione dicendo “Tranquilli, non è niente, questione di virgole...”
Poche cose mi fanno più arrabbiare di una sanità che si sbriciola, di una scuola vuota, nozionistica, stupida, di lavoratori schiavi, senza dignità, senza il senso di contribuire a qualcosa (il senso, non l'illusione), di un popolo di egoisti e narcisistici incompetenti.
Poche cose mi fanno più rabbia dell'arroganza del potere.
Ma forse niente mi fa arrabbiare più del paternalismo.

Perciò ecco l'argomento più paternalistico che ho sentito in giro: la “governabilità”.
È praticamente da sempre che la governabilità mi perseguita come un incubo.

Ho un ricordo in proposito, indelebile: il mio primo voto, quando perdemmo il nobilissimo proporzionale (che si poteva correggere, e le proposte c'erano).
Votammo No in 10 o 12 (la maggior parte di questi li conosco), fu una ferita che mai si rimarginò. Ogni volta che vado a votare, io mi sento quella ferita che si riapre.

Posso dire che siamo un paese diviso fin dal referendum monarchia-repubblica? Io non c'ero, sia chiaro, ma so che vincemmo per un soffio.

Questo della divisione è un problema genetico, un problema che non risolvi mettendo a tacere metà della popolazione in nome di una cosa orribile come la governabilità.

"Governabilità" è come tagliare una mela in quattro e buttarne via un pezzo perché non si è capaci di dividerla in tre.

Se una cosa è ingovernabile avrà i suoi bei motivi.

Ed ecco la pars costruens. Auspico una divisione longitudinale dell'Italia a metà: da un lato i reazionari, capitalisti e liberisti selvaggi, dall'altro i rivoluzionari che discutono cercando di capirsi, in mezzo i moderati.
In pratica una divisione tra buoni e cattivi, con in mezzo gli sciocchi, gli opportunisti, i pigri di cervello, che vanno un po' di qua e un po' di là, doppia cittadinanza, ma senza poter votare né qui né lì, in punizione.

Oppure, ecco, io vorrei che il paese fosse rappresentato, diviso, sciocco, razzista, ma rappresentato.
E preferisco cento nemici eletti, contro cui battersi, ma specchio del paese, a un solo Gesù Cristo che dirige il traffico con manipolazioni alle regole, piccole scorrettezze, molta ipocrisia e con paternalismo, togliendomi la libertà di pensare e di scegliere.
Perché a quella si rinuncia una volta e poi per sempre.

Io non voglio andarmene in giro con lo stigma del No, non voglio sentirmi odiata per avere esercitato la mia libertà, guai a voi per quest’odio, perché non vi rende diversi da coloro che tanto temete.

No è quella parola che serve a fermare la tazza che cade. No lo dico quando mi arriva una cattiva notizia, lo penso quando so che ho di fronte la strada sbagliata, lo grido quando mi sta arrivando in faccia un treno di merda.
E quel No spesso non mi salva, perché la frana è oltre il punto di non ritorno, ma è la mia parola dentro, e se in quell'istante potessi farla diventare di pietra, lo farei.
Il NO salva dalla resa.

Ci si vede per un brindisi sull'Appennino.