martedì 3 dicembre 2019

LE VOLTE CHE HO CREDUTO DI STARE PER MORIRE



Il giardino dei ciliegi di Strehler
E mentre computavo nel buio il contorno di uno dei due tizi col machete, e particolarmente il contorno del machete...
E mentre le mie orecchie ricevevano il grido di allarme proveniente dal mio compare, nella forma specifica: “Ha un coltello, scappa!”, che si riferiva però al primo tizio col machete, che fronteggiava lui, senza essersi avveduto del secondo tizio col machete che fronteggiava me…
...E mentre il mio cervello elaborava la doppia informazione del machete e del grido, traducendola in un impulso che suona più o meno: “Girati e corri, adesso!” che le gambe eseguivano solo in parte, perché erano metà gambe e metà paura, facendomi cadere a terra faccia in giù...
...E mentre il mio pensiero, nella resa della schiena al cielo, non andava al padre, vedovo di fresco che perdeva in pochi mesi la moglie e la figlia, e non andava alla creatura in grembo (anche perché in effetti non sapevo ancora di averla in grembo), bensì si rattrappiva, il pensiero, in un banale stupore, esprimibile più o meno nella domanda: “Succede così?”
…E mentre il corpo incredulo si volgeva al solo dilemma del corpo, riassumibile più o meno nell’espressione “Farà male?”

E mentre le stelle valutavano in apnea quel mio tempo...
...Un nugolo mai meglio identificato di donne latine (da me poi interiorizzato attraverso una figura retorica che lo ha trasformato in “le mamme”) uscivano dalle porte delle case di Camaguey, Cuba, urlanti indignazione all’indirizzo dei due tizi armati, ricacciandoli non so per quale portento nel mistero dei vicoli da cui erano emersi.

Ma a parte quella volta, e a parte quando un tizio alto e freddo, a parte quando Clint Eastwood è salito dal lato passeggero sulla mia macchina e mi ha detto: “Dille di scendere”, riferendosi a mia figlia, di allora 5 anni, che avevo appena legato sul suo seggiolino di dietro... congedandosi però, infine, anche lui rapidamente, assurdamente, e per ragioni imponderabili almeno quanto quelle della sua comparsa...


A parte quella volta, e a parte la volta che forse davvero sono stata a un soffio, quando un’enorme auto mi investiva caricandomi sul cofano, da cui con la testa sfondavo il parabrezza, ed erano i parenti più stretti, affacciandosi al balcone, a mettere a fuoco la visione di una specie di pupazzo esanime a bordo strada, senza scarpe e con la gente intorno, credendomi probabilmente spacciata (quella volta però non ebbi il tempo di pensarci)…

A parte poi, ovviamente, tutte quelle volte di categoria inferiore, del tipo “credevo di annegare” o “in macchina con un pazzo”.

E a parte tutte le volte che mi addormento con la paura di morire, o che mi ci sveglio, o che mi ci faccio un pomeriggio.

A parte queste cose, che vanno tutte bene per fare colpo alle cene, la volta più spaventosa che ho creduto di stare per morire è stata quando mi sono precipitata dal medico in lacrime, implorando: “Ho una figlia di 10 anni, è troppo presto!”


Mi spiego meglio. Da qualche tempo avevo una cosa, non so come devo chiamarla, una piccola pallina, indolore, sulla lingua. Ovviamente il fantasma di un tumore c’era già da settimane, a volte era un fantasma 'malattia più decesso', e altre volte quello 'malattia più guarigione'.


Ma il primo caso, sotto forma di fantasia, al massimo mi aveva spinta a elucubrare, esteticamente, che forse era venuta la mia ora, che forse c’era un motivo per cui era giusto che io me ne andassi prima del previsto, ad esempio che mia figlia potesse trovare se stessa in assenza di una mamma ingombrante, e che infatti per questo motivo, fatalmente, suo padre si stesse avvicinando a una donna splendida, perché fosse lei in futuro a farle da madre.

O forse il motivo era che così quel che scrivo sarebbe stato letto da più persone, avide di tragedia e dolore...

Altre volte il fantasma si presentava a me con un lieto fine: se mai fosse stato tumore, l’avrei combattuto e avrei vinto, sarei sopravvissuta, e questo mi stava accadendo come per una sorta di upgrade della mia anima. (E anche questo sarebbe andato bene per le cene).

Il fantasma era lì dicevo, e io avevo appuntamento dal medico qualche giorno dopo, un mercoledì.
Ma venne la notte, e con lei, più sottile, uno spettro che portava non proprio fantasia ma certezza, nella versione malattia più decesso.

Credevo che il risveglio e lo scorrere della giornata avrebbero sopito le paure che si gonfiano al buio, ma invece la mattinata era un salendo di palpitazioni sudaticce da ansia e umidori d’occhi che imbucavano in gola un terrore più che un timore, divorante, fino a una sentenza di morte, di una evidenza mai capita prima (salvo quando scesi in farmacia a comprare il  test di gravidanza ben sapendo, fulmineamente, di essere incinta, ma non era brutto).

Davanti alla scrivania della segretaria dalla mia dottoressa, senza appuntamento, dissi che non potevo aspettare. Ero ormai inconsolabile, il volto di una verità.

Ho una dottoressa dolce e simpatica, che mi ha presa sul serio, forse ero molto convincente, e mi ha visitata con attenzione. Alla fine, ha detto, non sto per morire.

Allora perché racconto questo episodio denunciandomi così squisitamente psicotica?
Credo che sia, intanto, per gigioneggiare, magari infilandoci qualcosa tipo un machete di Damocle”, che sarebbe effettivamente una battuta bruttissima.

Ma anche perché quello che ho vissuto in quelle ore, cioè l’incontro con la cosa, la cosa intendo, la cosa che puoi toccare, la cosa che comunque un giorno prima o poi arriverà e alla fine della mattinata sarà condanna e non assoluzione, beh, lo strizzabudella che ti fa la cosa, giustifica qualsiasi lamentela, violenza, mal di vivere, nevrosi o malessere che ci portiamo nello zainetto di sassi della quotidianità e che qua e là vomitiamo in modo deforme.
Qualsiasi mostro sia nato in noi, individui o umanità al completo, è giustificato dalla presenza della cosa sulla scena.

Ma soprattutto lo racconto perché è successa una cosa importante, ed è che solo lì, finalmente, ho riconosciuto quel suono, un suono imperscrutabile che cerco di capire da quando l'ho letto in Cechov molti anni fa, il suono di una corda di violino che si spezza in lontananza.

Ciao cosa, tra me e te hai vinto tu in partenza, grazie di essere restata alla larga fino ad oggi.