mercoledì 24 gennaio 2018

LE LACRIME DEL MAGGIORDOMO





Ci sono persone che nascono maggiordomo, oppure ci diventano, per bisogno forse, o perché i loro padri e i padri dei loro padri erano maggiordomi.
Ci nascano o ci diventino, il fatto è che non sanno smettere.

Hanno il loro abito, la loro postura senza una piega, la loro faccia senza un lamento, va tutto benissimo anche quando dentro li divora la gastrite.
Vigilare sulla servitù, far aspettare in salotto, non importunare i padroni di casa, attendere alla custodia del tempio, è un lavoro di grande responsabilità, il destino a cui sono convinti di appartenere.
Non c’è nessuno che pensi a loro, ma è proprio questo il loro compito cosmico, il loro piccolo delirio di onnipotenza.

Passano gli anni e quell’abito diventa una pelle, e anche se li vedi una notte, senza livrea, seduti al bar con un boccale di birra, non puoi confonderti. Sembrano fatti per dire sissignore, pronti signore, no certo che non ho una vita mia, signore. La mia vita è la sua vita signore.
Come Lino Banfi in Vieni avanti cretino: “La sua soddisfazione è il nostro miglior premio.”

E se un giorno è la rivoluzione stessa a bussare alla loro porta, loro ci sognano sopra un pochetto, mentre servono il té, e dicono “interessante...” e intanto corrono a liberare un lavandino otturato, “davvero interessante, ma aspetti qui un momento per favore, la signora ha bisogno di me.”
Forse una lacrima, in segreto, si forma e si asciuga.

C’è un tarlo, forse, che li consuma, l’essersi fatti vivere la vita dagli altri. E allora qualche volta vanno a sbronzarsi e a giocare a freccette. Puoi trovarli al bancone del bar sullo sgabello accanto al tuo, con una bella sbornia triste.
So riconoscere un maggiordomo quando ne vedo uno, credetemi, ho fatto tre anni di scuola con uno di loro. Ma mai mi sarei aspettata che un maggiordomo avesse occhi tanto acquosi. Sembrava innamorato, credo fosse ubriaco di un qualche siero portentoso.

Ogni tanto qualcuno gli passava vicino dileggiandolo, “Ma lo sa la signora che bevi la birra?” Lui non li guardava neanche.
Sono incassatori formidabili i maggiordomi.
“Il padrone ti ha lasciato uscire?” 
“Voi non capite!” sbottava tra sé. E una freccetta da non so dove diretta a lui si conficcava sullo schienale del mio sgabello.
Il barista mi spiegò che quella domenica c'era il torneo, e quell’uomo era un campione nato. “Con lui si vince!”
Su in villa però domenica c’era troppo da fare, e lui al torneo non ci poteva andare.
“E senza, si perde,” aggiunse il barista ciancicando disprezzo.
“È il mio lavoro!” si difendeva lui.
“Un uomo come si deve onora gli impegni.” Fu un’altra freccia per il maggiordomo.

“La padrona...” bofonchiava in solitudine, “Che cosa direbbe lei se mi prendessi le domeniche libere? Proprio le domeniche? direbbe, Con tutto quello che c’è da fare, con i ricevimenti, i pranzi... Farebbe delle gran scenate.”
“Eppure credo sia suo diritto...” tentai.
Ma lui a stento capiva che cosa intendessi.
“E il padroncino poi? È solo un bambino, capirebbe lui?”
“Magari sarebbe fiero di un maggiordomo campione! E certamente prenderebbe a rispettarla...” buttai lì. Ma non capiva cosa volesse dire “rispettarla”, era sempre stato educato con lui, un buon padroncino tutto grazie e buonasera.

E poi c’era il padrone, con lui c’era un rapporto speciale, a lui doveva tutto, gli aveva insegnato ogni cosa che oggi sapeva.
“Il padrone non parla mai, ma si aspetta molto da me,” concluse.
E dietro le sue spalle qualcuno mimò un burattinaio.

Ingrigiscono così, possono avere trent’anni ma ne dimostrano sempre mille, possono avere una mira prodigiosa ma l’unico bersaglio che centrano sta nel loro petto, possono avere voce da baritono ma li sentirai sempre solo sibilare un sissignore.

Probabilmente non lo sanno mentre cercano scuse, ma è che non saprebbero fare a meno del loro abito, allora mettono la rivoluzione alla porta con le parole “Vi chiamo io...”

Può darsi che nei rari giorni di festa, in cui i padroni sono in viaggio, facciano baldoria in un pub, facciano a botte, ringhino contro il cameriere. Può darsi che siano altri a sopportare la bile delle loro rinunce, o che certi vecchi parenti li rimpiangano, può darsi che parlino con rancore ai propri amici, ma lassù in villa sarà sempre un sissignore.



martedì 9 gennaio 2018

LEFESTE





Il 9 gennaio c’è un abete che ti guarda chiedendo la grazia di un colpo secco. Sono finiti tutti gli avanzi, resta solo la robaccia della calza. Un pacchetto ancora intatto perché non hai fatto in tempo a vedere quella persona. Sono tracce, scarti, residui. Quello che prima palpitava ovunque pieno di promesse, ora impigrisce risaputo e logoro in un angolo della casa.
Niente paura: sono finite “Lefeste”. È normale sentirsi un po’ frusti.

Le feste si chiamano così perché ti fanno la festa.

Intanto non è solo questione di feste, c’è tutto un prima, isterico, un dicembre in cui praticamente ti casca addosso tutta la merda accumulata in un anno sotto il tappeto delle tue inadempienze.

E c’è la preparazione, il suddetto albero, con le discussioni adulto-bambino su come diavolo andrebbe fatto e su come invece si farà. Ogni anno finisco con il constatare ancora una volta come l’entropia sia messaggera di morte.
Ci sono le luci, e questo comparire a poco a poco, le vetrine, i pandori, la pubblicità in televisione, il calendario dell’avvento, il brindisi aziendale.

C’è poi la faccenda regali, con l’elenco e le spunte, eliminato, eliminato, eliminato.

Infine, per l’atteso giorno, ci sono gli altri: quelli che devi vedere, quelli che non potrai vedere, quelli che non ti vogliono vedere.

Passato l’orgasmo, quando ti credi salvo, in realtà  cavalca verso di te come un cavaliere dell’apocalisse il fratello maggiore delle feste di merda, quella sera intrinsecamente ignorante, ontologicamente anni ’80, ineluttabilmente sfigata, che io chiamo La festa della solitudine. In un attimo è quel giorno e tu hai nascosto la testa sotto la sabbia credendo di farla franca.
No, non te lo lasciano fare.

Infine la stramaledetta Befana, un’icona orrenda di vecchia inquietante, quella che si porta via le vacanze.
Il suo arrivo non è il compiersi di un’attesa, ma una strisciante e inesorabile imboscata. Ne ho qui una che mi hanno simpaticamente regalato che è voluta finire nel presepe di Babbo Natale che smonterò a carnevale con l’albero.

Un chiarimento sul presepe di Babbo Natale. Qui, famiglia laica fino al gatto e al cane, il presepe si fa per rappresentare l’unico vero avvento di questo mondo, quello di Babbo Natale.
Quindi solo neve, renne e slitta.

Perché, giù la maschera, a me il Natale piace da matti. Mi piace proprio il Natale consumista, dei regali, dell’opulenza, di Babbo Natale vestito di rosso, proprio quello della Coca Cola, dei film brutti coi buoni sentimenti, delle leggende sul Polo Nord e tutta quella neve.

A me piace proprio quel vecchio ciccione imbiancato, per me è un figo, sono convinta che esista davvero e che  scenda giù dal mio camino. Giuro che ogni anno mettiamo i biscotti e ne restano poche briciole, giuro che al mattino sono comparsi pacchi sotto l’albero, giuro che porta esattamente quello che mia figlia gli ha chiesto speranzosa.

Mi piace il Natale, mi piace tutto il baraccone, lucette, cibo, agitazione, regali, amo cercarli e amo quelle faccette fiduciose da attesa.
Perché è di questo che si tratta, di aspettare qualcosa che sicuramente verrà.
Ecco perché Babbo Natale è un figo. Perché ci puoi contare, lui fa promesse e le mantiene, si fa attendere, e infine arriva davvero.

Credo sia questa la differenza tra Babbo Natale e Babbo Vengo-presto-ma-non-mi-aspettate-magari-una-sera-di-queste-magari-a-luglio-ma-venire-vengo,-davvero,-ci-tengo.

Non lamentiamoci dunque, perché se la guest star delle nostre feste fosse questo tizio qui, allora ci sentiremmo precipitare nel vuoto.
Babbo Natale invece sai quando viene, è come un appuntamento, è come la volpe del Piccolo principe, quella del “creare legami”.

Arriva puntuale, caldo e allegro, si vede proprio che ci tiene e come lo giri lo giri puoi stare certo che non ti fa il bidone. Viene, fa uno sconquasso, e va.
Ti lascia saturo, e sicuro.