martedì 9 gennaio 2018

LEFESTE





Il 9 gennaio c’è un abete che ti guarda chiedendo la grazia di un colpo secco. Sono finiti tutti gli avanzi, resta solo la robaccia della calza. Un pacchetto ancora intatto perché non hai fatto in tempo a vedere quella persona. Sono tracce, scarti, residui. Quello che prima palpitava ovunque pieno di promesse, ora impigrisce risaputo e logoro in un angolo della casa.
Niente paura: sono finite “Lefeste”. È normale sentirsi un po’ frusti.

Le feste si chiamano così perché ti fanno la festa.

Intanto non è solo questione di feste, c’è tutto un prima, isterico, un dicembre in cui praticamente ti casca addosso tutta la merda accumulata in un anno sotto il tappeto delle tue inadempienze.

E c’è la preparazione, il suddetto albero, con le discussioni adulto-bambino su come diavolo andrebbe fatto e su come invece si farà. Ogni anno finisco con il constatare ancora una volta come l’entropia sia messaggera di morte.
Ci sono le luci, e questo comparire a poco a poco, le vetrine, i pandori, la pubblicità in televisione, il calendario dell’avvento, il brindisi aziendale.

C’è poi la faccenda regali, con l’elenco e le spunte, eliminato, eliminato, eliminato.

Infine, per l’atteso giorno, ci sono gli altri: quelli che devi vedere, quelli che non potrai vedere, quelli che non ti vogliono vedere.

Passato l’orgasmo, quando ti credi salvo, in realtà  cavalca verso di te come un cavaliere dell’apocalisse il fratello maggiore delle feste di merda, quella sera intrinsecamente ignorante, ontologicamente anni ’80, ineluttabilmente sfigata, che io chiamo La festa della solitudine. In un attimo è quel giorno e tu hai nascosto la testa sotto la sabbia credendo di farla franca.
No, non te lo lasciano fare.

Infine la stramaledetta Befana, un’icona orrenda di vecchia inquietante, quella che si porta via le vacanze.
Il suo arrivo non è il compiersi di un’attesa, ma una strisciante e inesorabile imboscata. Ne ho qui una che mi hanno simpaticamente regalato che è voluta finire nel presepe di Babbo Natale che smonterò a carnevale con l’albero.

Un chiarimento sul presepe di Babbo Natale. Qui, famiglia laica fino al gatto e al cane, il presepe si fa per rappresentare l’unico vero avvento di questo mondo, quello di Babbo Natale.
Quindi solo neve, renne e slitta.

Perché, giù la maschera, a me il Natale piace da matti. Mi piace proprio il Natale consumista, dei regali, dell’opulenza, di Babbo Natale vestito di rosso, proprio quello della Coca Cola, dei film brutti coi buoni sentimenti, delle leggende sul Polo Nord e tutta quella neve.

A me piace proprio quel vecchio ciccione imbiancato, per me è un figo, sono convinta che esista davvero e che  scenda giù dal mio camino. Giuro che ogni anno mettiamo i biscotti e ne restano poche briciole, giuro che al mattino sono comparsi pacchi sotto l’albero, giuro che porta esattamente quello che mia figlia gli ha chiesto speranzosa.

Mi piace il Natale, mi piace tutto il baraccone, lucette, cibo, agitazione, regali, amo cercarli e amo quelle faccette fiduciose da attesa.
Perché è di questo che si tratta, di aspettare qualcosa che sicuramente verrà.
Ecco perché Babbo Natale è un figo. Perché ci puoi contare, lui fa promesse e le mantiene, si fa attendere, e infine arriva davvero.

Credo sia questa la differenza tra Babbo Natale e Babbo Vengo-presto-ma-non-mi-aspettate-magari-una-sera-di-queste-magari-a-luglio-ma-venire-vengo,-davvero,-ci-tengo.

Non lamentiamoci dunque, perché se la guest star delle nostre feste fosse questo tizio qui, allora ci sentiremmo precipitare nel vuoto.
Babbo Natale invece sai quando viene, è come un appuntamento, è come la volpe del Piccolo principe, quella del “creare legami”.

Arriva puntuale, caldo e allegro, si vede proprio che ci tiene e come lo giri lo giri puoi stare certo che non ti fa il bidone. Viene, fa uno sconquasso, e va.
Ti lascia saturo, e sicuro.



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