mercoledì 29 giugno 2016


PUNTATA 4


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TRE



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Ah se potessimo spiegare ai nostri figli perché sbagliamo. Se potessimo scrivergli una lettera ed essere capiti, magari perdonati.
Ma non servirebbe a niente. Il danno è fatto, qualsiasi spiegazione non li ripagherà di quellurlata di troppo, di quello sguardo di quando non possiamo più sopportare la loro vista, che ce li tolgano di davanti.

Che poi le cose non stanno veramente così, noi li vorremmo sempre con noi, solo non con i loro capricci, i loro pasticci.
Vorremmo che facessero quello che gli comandiamo. E ne ho visti di bambini che lo facevano, ne ho visti di soldatini, lo giuro. “Mettiti le scarpe” e mettevano le scarpe, “Vieni andiamo” e questi andavano.
I miei no, sarà colpa mia. Un po’ di più il primo, ma la seconda non se ne parlava.
È sempre stata una guerra con lei.

Se avessi potuto, allora, quando erano piccoli, spiegarle i miei errori, come potrei fare adesso, con parole da adulto, quelle parole che spiegano e non risarciscono.
Allora non poteva capirmi, adesso invece sì, potrebbe...
Ma adesso sarebbe inutile, gli errori ormai sono stati commessi, irreparabilmente.

Chissà quante cose sono scappate di mano, un’ora di nascondino negata, una sciocchezza sfuggita di bocca, un senso di colpa messo lì a tavola, per cena, un po’ di inadeguatezza a colazione, insicurezze per merenda.
Cose che li consumeranno, in un modo o nell’altro li uccideranno.
Per fortuna, perdonare, loro perdonano.

Lui non sembrava avere di questi problemi, lui eseguiva, per lo più alla cazzo di cane. Non credo si facesse domande, non credo cercasse di parlare con loro, di capirli o di farsi capire.
Non parlava con me, non parlava con loro, con chi parlava?
Con le altre madri? Con gli altri padri? Ma soprattutto, di che cosa parlava?
Di calcio forse, e di soldi. Ogni uomo vorrebbe farne a palate, e vive in attesa di quel giorno. Allora quando avrà accumulato una fortuna, forse, riuscirà a occuparsi di essere felice.

Certe volte, persino verso la fine, mi capitava ancora di pensare che fosse qualcosa in più di un bisonte scemo, all’improvviso vedevo la luce che lo aveva attraversato quando me n’ero innamorata.
Era inspiegabile quella luce, era qualcosa che non avrei saputo dire da dove venisse, né allora né lì sul finire, agli sgoccioli della nostra vita insieme.

Fu in uno di questi momenti che qualcosa finì con lo spezzarsi per sempre. Erano giorni buoni, un livello dignitoso di tolleranza. Qualche scricchiolio trattenuto, il solito lasciar correre, lasciar passare, per andare a intasare giù in fondo la strettoia dei regolamenti di conti.
Mi ero spinta a un sorriso, una sera, comparendo dietro al bagliore blu del suo computer, una mano sfiorata. Forse un... “ti amo” poteva essere sul punto di essere pronunciato.
Il suo volto azzurro non si mobilitò che per inseguire un pugno di pixel in movimento, l’occhio fisso in profondità sullo schermo.

In quell’istante, credo, mi si è disvelata la natura di quella luce, il chiarore che l’aveva illuminato in passato, anche quando lo avevo amato: era il riflesso di me.

Era quello il nostro sistema solare, in cui una sola luce animava il contorno di entrambi.
Era così che nel mio pensiero quello che credevo essere il numero due si era trasformato.
Si chiama sistema binario, ma si conta fino a uno. 
Scoprivo che quei due numeri, quei bastoni di binario, portavano a una semplice classificazione gerarchica: il distintivo di vice capo, quello di un numero due, se l’era guadagnato lui.


...CONTINUA


venerdì 24 giugno 2016

STANOTTE


Qualcuno stanotte
sta morendo
in un ospedale,
nelle viscere della città.

Come qualche anno fa
mentre c’erano i fuochi
le luci i botti la gente
la festa,
mentre si muoveva la folla,

qualcuno moriva
lento
fermo
moriva
e moriva
morendo per sempre.

Anche stanotte c’è qualcuno che muore.
Chi è.
Dove sono i parenti, dove corrono.
Come si muovono.
Come si sono organizzati
per Domani?
Cosa stanno pensando?
Come il cuore gli batte nel petto.
Come stanno ancora ritti sulle gambe.

Non c’è comprensione per i vivi
che devono correre a vivere
mentre la morte non li lascia più.

Io so che qualcuno stanotte sta morendo,
dice "Vivete"
e vivremo.


mercoledì 22 giugno 2016


PUNTATA 3


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DUE


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A volte mi domando se quello scarafaggio nello specchio sono io.
Non mi sono svegliata così dalla sera alla mattina. Il mio caso è diverso.
Io m’accorgevo benissimo di cosa stava capitando. Mentre cantavo l’ennesima ninna nanna, mentre scivolavo via quatta quatta dalla stanza, mentre ascoltavo il nostro silenzio nella sera.

Allora lì, abbattuta sul divano, con il ricordo di me negli occhi, e di ciò che avrei dovuto essere secondo lo specchio di allora, ritornavo a pensare agli amici, alle nostre vacanze, ai miei amori, alla mia primavera.
E sentivo rumori di fondo, voci, persino musiche.
Allora mi accorgevo che quel silenzio era lui.

Il giorno dopo andavo a prendere i bambini a scuola, e guardavo intorno a me le mamme, che si accalcavano e parlavano tra loro, le vere mamme. E mi sembrava di non aver nessuno con cui parlare, nessuna di quelle signore, di quelle donne, poteva minimamente immaginare ciò che prima ero stata.
Due parole le scambiavo anche io, un sorriso, qualche volta sono anche stata a casa loro.

Ma non ho mai pensato che dentro le loro case, la sera, si ascoltasse questo silenzio che ancora non si è spento, quello in cui io cominciavo a rimpiangere, ad andare all’indietro nel tempo, a concepire accuse e processi.
È stato in quelle sere che, gradualmente, lentamente, sono diventata scarafaggio, mi sono incurvata.

Certo, invecchiare bisogna invecchiare, e chi dice niente. Ma io mi stavo trasformando in qualcos’altro, forse in una di quelle mamme. Forse nella loro imitazione.
Devo dire che è stato impossibile, anche dopo aver dato la giravolta al tavolo, tornare indietro da quella metamorfosi nello specchio, è stato impossibile mettere fine a quel silenzio.

Sì, certe sere di solitudine tocca ammetterlo, non è stata una ventata d’allegria quella che è venuta dopo la mia decisione.


...CONTINUA


mercoledì 15 giugno 2016


PUNTATA 2



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TRE



È pazzesco, passi una vita a tenere insieme le cose per non deludere i bambini, e poi gli spezzi il cuore così... Eh no, vista così certo che non ha senso.
Guardaci oggi, separati da abissi, la madre, il padre, i figli, ciascuno solo dentro a un suo destino misterioso.

Morire, bisogna morire.
Ma chi l’ha detto che una donna deve morire così, stritolata? Soccombere schiacciata sotto il peso di tutta la maledetta storia?
Perché ogni mattino che Iddio ha mandato su questa terra io ho dovuto svegliare, tirare giù, nutrire, pisciare, lavare e incartare due figli, per anni, preparandoli bene affinché potessero affrontare la giornata a testa alta, mentre lui, un uomo come tanti, ciondolava dal cesso alla cucina scorreggiando e grattandosi le palle in cerca della voglia di vivere?

Uscendo di casa non si sono congelati il culo, questo perché io ho pensato a vestirli, e io gli ho insegnato a farlo da soli, e non hanno azzannato la merenda al vicino di banco, perché io li ho nutriti. Hanno conservato la dignità dentro un paio di mutande asciutte, non sono finiti sotto al tram, non sono arrivati tardi a scuola, sono diventati grandi e forti, perché io, soltanto io, ho diretto questa loro vita, ho permesso loro di farlo, sopravvivendo e imparando.
E questo si può farlo solo se c’è qualcuno che pensa costantemente a loro, fuori e dentro casa, giorno e notte, lontani o vicini.

E lui? Lui dov’era? Forse non era lì accanto? Oh, c’era eccome, era lì e osservava tutto, muovendosi goffamente come una scimmia che cerca di imitarti, eseguendo ordini.
Ha fatto qualcosa anche lui, certo, deve averli portati a scuola qualche volta, deve averli soccorsi dopo una caduta, e se è per questo ha cambiato pannolini e preparato pappette, ha lavato denti e comprato figurine.
Era come eterodiretto. Me lo ricordo, mi guardava imbambolato, con la paura di sbagliare forse.
Ma non era questo, non era la quantità di cose da fare, o la velocità e la precisione con cui dovevano essere fatte. Era quel suo guardare attonito, quel suo rispondere “non so”, col mento contratto e la bocca all’insù, come se tutto questo non lo riguardasse.

Pare che i padri di oggi non sappiano sgridare.
In compenso ci sono mamme che si spappolano la dentiera a forza di digrignare denti, che vanno masticando e scaracchiando boli di fiele, che bestemmiano per una briciola sul divano.

Ricordo di avere pensato: basterò io.
Ho parlato da sola tanto a lungo, ma tanto a lungo.
Chissà perché non si era accorto di quanto bestemmiassi io. Non è che accada per caso, poi, che uno perda la tramontana. Non si può cadere dalle nuvole.
È  molto triste, lo so, che due che si divertivano insieme la sera finiscano così come siamo finiti noi.
Ma sgridare, bisogna sgridare.

...CONTINUA


mercoledì 8 giugno 2016




PUNTATA 1


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Le cose vanno così, si dice, nessuno ha colpa. Ma io non lo so, non è che si possa sempre lasciar andare tutto, senza fiatare.
Quello è lasciarsi convincere. 
In fondo in fondo è tutta la vita che ci provano. E allora, anche su questo, viene gente a chiedermi se ho cambiato idea su di lui, se tornerei indietro.
No, non credo proprio.
Certo che dispiace, per i ragazzi, per quello che poi tutti ti ricordano quando dicono: “Pensare che sembravano così affiatati...”

Non dico che non ci si senta in colpa, che non si abbiano ripensamenti, non dico che sia facile, dopo, tirare avanti, quando i tuoi risultati ti guardano, ti rimproverano. Quando il mondo intero, ma sì, diciamolo pure, è il mondo intero a biasimarti. Tu sei il mostro che ha dato un calcio alla famiglia.
Ma allora, in quel mondo da cui era sparita la comprensione, davvero non restava altro.
Quei ragazzi erano immobilizzati in una pasta densa, la nebbia di casa, i genitori che non si amano più.

I figli, da quando ti finiscono in braccio, fanno nascere una nuova vita in te, un germoglio che coltiverai con apprensione, con tutta la cura di cui sei capace.
Germogli che piangono, strillano, ciucciano, scarnificandoti. Germogli che più guadagnano chili, più ti piegano la schiena, germogli che ti chiedono di sapere le cose, di dare spiegazioni, di prendere decisioni.

Non è che uno lo scopre tutto d’un botto, no, ci vogliono anni, di solito. Perché, di solito, qualcuno che ti sbatte una mano sulle tette la notte, prima di addormentarsi, dà l’idea, almeno ai più, di uno che ti vuole, che persino ti ama, forse.
E poi in fondo è sempre lì, mica se ne va, mica è mai sparito senza dirti nulla, non si è giocato i risparmi di famiglia, non ha mai alzato un dito men che mite su di te. Non gli si può rimproverare nulla, in fondo.
Qualcosa andava fatto, qualche decisione andava presa.

E poi, alla fine, è ovvio che il colpevole è quello che decide. Colpevole per tutti, per le vittime, per i vicini, per le famiglie coinvolte. Non si può avere troppa indulgenza per questo genere di intemperanze.
Nessuna attenuante, non c’è stronzata che tenga, di tutte quelle che ha fatto. Neppure il giorno che gli hai chiesto una tachipirina e ti ha messo lì un lassativo. Non sono cose che vengano prese in considerazione da giudici e avvocati, nel bilancio dei colpevoli conta solo chi ha preso l’iniziativa, chi ha messo la parola fine.
Non discuto questo, non mi stupisce che gli amici si siano schierati con quel poveretto e nessuno, nessuno, sia restato accanto a me, mi sia mai venuto a trovare una volta.
Voglio solo dire che vivere in quel modo era come morire.

...CONTINUA


venerdì 3 giugno 2016


PUNTATA ZERO



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No, non si tiene così.
Una mano la devi tenere sempre qui, vedi? Per tenergli la gambina, così se ti scivola lo afferri da lì.
Oh, io ce ne ho messo di tempo a tenere in braccio un bambino, dico uno appena nato, uno di questi.
Certo che si addormentano come niente... guarda lì.
Nulla a che vedere con i miei, i miei non dormivano mai. E allora sì che era una fatica, in casa era una guerra per accaparrarsi minuti di sonno.

Perché dormire, bisogna dormire.

Quante volte gliel’ho detto che doveva alzarsi anche lui, la notte, sostituirmi qualche volta, e poi la mattina, per portarli all’asilo, a scuola...
E invece così era come essere soli. Peggio, perché quando sei sola, almeno, te ne accorgi, te ne fai una ragione, come me oggi.
Ti ci scavi un’impronta singola, a tua misura.

A pensarci bene, anche prima che arrivasse il sonno, dico anche prima dei figli, quando eravamo in due, io e lui soltanto, ho come la sensazione che anche allora ci fossi soltanto io.
Io, io, io.
Ero io a volere le vacanze con la tenda sotto il cielo, ero io a fare allegria, la sera a cena, a parlare di futuro, a dire “ti amo”. Ero io a pensare all’amore.

E adesso guardami, asciutta come una spugna al sole.
Oggi ormai, fresca di menopausa, i figli altrove, non sembra neanche vero, ma era importante, l’amore era importante.
C’è stato sicuramente un momento, una lunga stagione direi, in cui quella cosa lì era tutto.
Lo diceva ogni canzone, ogni parola pronunciata, ogni stella della notte lo diceva. Mi premeva solamente sapere quando lo avrei rivisto, se dormiva con me, se conosceva donne più belle di me.

Lavoro? Carriera? Figli? Casa?
Ah! Mi faccio una gran risata.
Ma che cosa erano? Cose per le nostre madri.
Io dovevo girare l’Europa in autostop, Budapest, Lisbona, Stoccolma! Macché Europa... Il mondo intero! Dakar, La Havana, Rio! E il tempo si fermava lì, non c’era altro a cui pensare, dopo.

Dopo era un contenitore infinito di cui non c’era bisogno di parlare adesso. Futuro era questo, futuro era il vento, dietro la porta, il futuro era un luccichio in fondo alla strada.
Mica una casa da costruire.
Quella era roba per i nostri padri, costruire case. Metter su mattoni, fare sacrifici, ingoiare ghiaia.


...CONTINUA