sabato 13 marzo 2021

 OLOCAUSTO




Il sogno da cui mi sono risvegliata solo poche ore fa già mi sembra meno vero.

 

Ero invitata, insieme a un paio di cari amici, ad assistere come spettatrice di una cerimonia in un teatro con la platea digradante verso il basso. Nella cerimonia, un gruppo di una dozzina di amici, molto stretti e molto uniti tra loro, decideva di farsi cremare, così com’erano, vivi, seppur previa anestesia, che avrebbe dovuto garantire loro di non soffrire mentre venivano arsi vivi.

Si mettevano in fila, in attesa del proprio turno per ricevere il trattamento che li avrebbe visti ben accomodati nelle bare già disposte sul palco. In fila, si offrivano, con un atteggiamento tra il patibolare e l’eroico, ma comunque ben disposto. Lo facevano in vista di una spirituale quanto illusoria riunione in un altrove, o in un altro tempo.

Al momento delle fiamme io, non potendo sopportare di assistere, uscivo, attaccandomi a un cellulare che consultavo compulsivamente in cerca di avvisi, notizie dal mondo, segnali da persone. Ma il mio cellulare era farlocco, era un surrogato di cellulare, non funzionava e non mandava alcuna comunicazione.

Al mio rientro in teatro, una pioggia di lapilli ci sovrastava, come una stellata, e un odore di bruciato evocava gli assenti.

 

L'interpretazione di questo sogno è, ovviamente, paradigmatica, un capolavoro di didascalia: il sacrificio a cui ci consegniamo, e che solo illusoriamente ci ripagherà, è evidentemente una mia preoccupazione, mi appare come un olocausto che ci porta a cauterizzare le nostre relazioni, in vista di una riunione mitica, spostata in un'altra dimensione.

 

Una mia preoccupazione, poi, volendo, è l'ennesima delegittimazione che come popolo abbiamo subito di recente, con il “cambio di passo”. A me il cambio di passo fa risuonare quel disporsi in fila, insieme, gli ospiti del mio sogno che quasi si immettono, come su una specie di tapis roulant, su un percorso che li porta. Li porta, punto.

 

Ma fa lo stesso, perché quello che voglio dire non è questo. Non è questo perché so bene che molti penseranno che ho perso la trebisonda a parlare di olocausto. È vero, ho perso la trebisonda. Dò i numeri. Sono pazza da legare. Batto i coperchi. La mia mente è rapita. Mi metteranno presto in una bella stanza con i materassi alle pareti.

Però il mio sogno è reale. Ha occupato un posto in questo mondo.

Anche la mia vita, le mie relazioni, occupano un posto in questo mondo.

Molti hanno cominciato a credere che la socialità sia un fatto edonistico. E a me quasi viene voglia di gridare “I pazzi siete voi!” aggiudicandomi una bella camicia con le maniche lunghe lunghe.

 

Voglio andare a una grigliata. È piacevole? No.

Bisogna fare conversazione, bevo troppo, per essere più divertente, ho mal di testa. È piacevole? No.

Voglio fare un aperitivo. È piacevole? No.

Ci sono le persone. Bisogna decidere che cosa fare dopo. Tutti hanno problemi, e io non dovrei essere qui, ho da lavorare, che senso di colpa. È piacevole? No.

Voglio portare mia figlia in giro, in viaggio. È piacevole? No. Devo fare un piano, e a lei non interessano le cose che interessano me. Devo lottare. Devo camminare. Magari piove. È piacevole? No.

È un fatto, lo sanno tutti, le relazioni sono un impegno, il più faticoso di tutti, nessuno ti capisce, meglio il gatto, ma neppure quello, ci vuole un eremo.

Non è certo un piacere. Eppure ne ho bisogno.

 

Allora, se nonostante questo bisogno, nel mio subconscio ci mettiamo in fila e ci offriamo all’olocausto, il mio povero subconscio è un dato che andrebbe messo tra i dati, nel brodo dell’inconscio.

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