martedì 14 aprile 2020

INCONTRO COL VUOTO

 



Da quando tutto questo è cominciato, ho fatto molte cose, e molte cose ho smesso di farle. Entrambe le azioni le desideravo da tempo.

Poco fa sono andata sul balcone e ho guardato la mia città, il pensiero immediato è stato che non abbiamo più una città. In realtà dall’alto della mia mansarda vedo solo tetti, cupole e campanili, salvo uno spicchio di piazza Castello, cose belle insomma. Sono fortunata.
Devo dire che, disabitate e inerti, sembrano meno belle. Per me non c’è niente di vero nell’idea che l’uomo imbruttisca il pianeta, al contrario. Senza uno spettatore attivo e cosciente vorrei sapere che cos’è la bellezza.

Il disabitato mi provoca una riflessione che non ho voglia di fare, è il vuoto che mi vuole ferma a guardar dentro la sua bocca. Ma non ti ci puoi buttare dentro... Un desiderio lontano sussurra “Magari!” E invece, mamma, devi ancora insegnare a vivere, proprio tu, che hai lasciato l’insegnamento perché non ti sentivi capace di insegnare un bel niente, di dire “sì”, “no”, “è così”, “è cosà”.

E poi mi è venuta in mente una cosa che una volta un saggio mi chiese: “Se tu perdessi tutte le tue funzioni, resterebbe qualcosa di te?” E così avevo intrapreso un cammino che mi portava quasi sempre allo stesso dibattimento, capii che sarebbe stata molto dura andare a vedere che cosa di me sarebbe rimasto al di sotto delle mie funzioni.

Eppure, a pensare che sì, che rimarrebbe qualcosa di me, mi prende un imprevisto sconforto… Non basta dunque gettare via tutto quello che sei per sbarazzarti di te?

Anche adesso, se ci penso, mentre guardo la città inerte, intuisco che è rimasto qualcosa di noi: è rimasto tutto, ahimè.
Questa di non poterci esaurire nelle nostre funzioni, di essere qualcos’altro, qualcosa di inestinguibile, è una tragica responsabilità.
Se fosse un maledetto specchio in cui osservarsi in eterno? Forse temo che quel qualcosa sia l’inferno.

Io sono una privilegiata, posso permettermi questa quarantena. Ho una bella casa grande e luminosa. Ho un compagno gentile, che mai una volta mi ha sganciato addosso le sue frustrazioni, non in questi giorni, non in questi anni. Ho una figlia che spande meraviglia e che è grandicella abbastanza da non dover essere intrattenuta con giochi a me alieni. Ho un conto in banca che può ancora sostenermi. Non ingrasso troppo (non troppo eh?) pur mangiando incredibili dosi di incredibili grassi e zuccheri. Ho amici, un cane tipo soprammobile, e tecnologia in esubero. Ho libri, ho film, ho interessi, ho serenità e allegria. Ho anche il pensiero, con cui torturarmi se casomai dovessi annoiarmi. Ho tigna per i giorni tignosi e dialettica per esprimerla. Non mi manca nulla… beh, mi mancano gli amici, ma così sia.

Non mi interessa più dei morti, della scuola, dei soldi che mi devono, dei lavori saltati, del cielo. E mi sembra impossibile che per me sia stato tanto importante far bene un lavoro, insegnare qualcosa di utile a mia figlia, scrivere, leggere, arrabbiarmi per qualche sciocchezza, gettare qualche seme nel mondo, lavare il pavimento.

Il duello che credevo si giocasse era l’incontro col vuoto dentro, un vecchio nemico. Era già lì, è stato lì sempre, fin dall’adolescenza, in certe lettere alle amiche, piene dello sgomento di guardarci dentro…
E invece, io non mi spiego ancora come, non c’era nessun vuoto dentro, io sto bene qui chiusa al sicuro con me stessa: forse questo nulla, questo tempo di cristallo e questa inerzia sono per me il guscio perfetto, la barriera contro tutte le responsabilità, la tana in cui poter restare nascosta e difesa.

In me convivono due vulgate di me: in quella più nobile si dice che avevo ben arredato la mia anima, e che il silenzio mi ha colta preparata, tutto ciò di cui ho bisogno è qui. Nella vulgata più misera, beh, io ho paura di tornare allo scoperto.
Quello che so è che ciò che davvero mi portava via, che davvero mi faceva uscire pazza, ciò che nel profondo mi minacciava giorno e notte e mi scavava ulcere nel cervello, era vedere il tempo al galoppo, assistere e anzi partecipare al furoreggiare di attività in cui non credevo, senza capire mai dove cazzo tutti corressimo. Questo mi stremava, mi devastava.
Ma allora il vuoto che ho sempre avuto dentro era fuori. Erano gli altri, erano le cose, era il movimento di pianeti lungo orbite a me incomprensibili!

Guardo dalla finestra, fuori e dentro sono finalmente uguali.
Nel frattempo, col passare delle settimane, si alternano sopra la mia testa varie fasi di scontento, come correnti fredde. I miei timori e i discorsi del cervello girano sui problemi economici, sulla coesione sociale, sulla resistenza dello Stato… sono pensieri e discorsi cha stanno come totem.
Il totem di cui più si parla negli ultimi giorni è la “strategia”. E di nuovo lo sento come un ingombro, dura un attimo, domani ne inventeremo un altro. Sento che ci focalizziamo continuamente sui nostri totem, che rivestono ogni importanza per pochi giorni, ma di cui a me forse non frega nulla da sempre.

Rivolgo lo sguardo al mio cupio dissolvi, ben sapendo che è un modo meraviglioso per dire che me infischio.
Mi dispiace, non riesco a desiderare nuovi totem, in tutto simili a quelli vecchi, non riesco a desiderare che la vita torni quella di prima, che il mondo torni a mettermi le mani addosso per strattonarmi in ogni direzione dilaniandomi e oscurandomi la vista.

Se mi lasciassi andare a una protesta, tremo allidea che essa venga digerita dal desiderio naturale di tornare indietro. Io non voglio.
Non voglio che torni il mio lavoro malpagato e frustrante, non voglio che tornino gli orari e la stanchezza come un macigno, non voglio che torni la scuola, da smontare quotidianamente, non voglio tornare a saltare il pranzo, non voglio che tornino le cene di corsa e urlate, non voglio che torni lo smog, non voglio che tornino le maschere.
Per quanto ne so io, meglio le mascherine.

Non voglio che tornino queste cose perché sono queste il mio vuoto alla bocca dello stomaco, la mia noia lancinante, sono queste lo specchio infernale in cui guardarsi per sempre, sono esse il nulla e non il contrario.

Perché nella giostra dei totem, avete abbandonato quello della “grande possibilità”?

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