venerdì 20 marzo 2020

LA LIBERTÀ DEL CANE




Mi capita di avere una gran voglia di andare a trovare il mio amico, fare quei due isolati e mezzo e salire su da lui. Ho voglia di fare cose insieme, e di rifare la vecchia vita, anche se non era rose e fiori.
Mi sento come Samvise Gangee e Pipino e quelli lì, quando ripensano alla Contea. Ma la mia vita non era la Contea, per nulla. Intanto c’era pochissimo verde, quasi niente, e certo non ci veniva a trovare uno come Gandalf.

Non c’era neanche tanto l’avventura, né la strenua lotta contro il male a dare un senso a tutto. Eppure oggi non posso correre per quei due isolati e mezzo. Perché?
Paranoia? Senso civico? Esercito? Salute pubblica? Paura?
Perché questa nuova realtà ci sembra una deformazione dell’unica possibile realtà, la nostra vecchia realtà?
E perché ancora ci inganniamo durante il giorno, fingendo che sia tutto sotto controllo (se farò così, andrà così e così) e la notte ci svegliamo in un mondo incommensurabilmente sconosciuto? Gli assalti dell’angoscia, il boccone preparato di giorno che di notte fa assimilare tutto di colpo e a forza. Tutto. Tutto lo strano, tutto il pericolo, tutta la nostalgia, tutta la paura. Tutta la distanza tra la Contea e Mordor.

Si piange. Si piange al pensiero delle bare sui camion. Si piange al pensiero dell’esercito.
Oggi ho portato mia figlia da suo padre, abbiamo camminato fino a casa sua. Da oggi e per una settimana starà con lui.
È che i bambini chiedono attenzione, per quanto youtube tu possa fargli vedere, dovrai sempre cucinargli due-tre pasti e fare le altre cosette… È che i bambini normalizzano.

Poi al tg Mentana ha detto che si parla concretamente di inasprire le misure, di esercito. Non è che sia facile per noi separati. Anche se si è detto fin da subito che non si poteva toccare quel diritto, beh, i soldati non sono lì per ragionare insieme. Ti vengono su paure nuove.

A me suonano mitomani i toni da tregenda, da diario di guerra, con cui ciascuno narra la propria quotidianità modificata, il patetismo con cui si cerca di raccontarla, eppure lo capisco, perché lo so che siamo pieni di voglia di avventura, lo so che il cuore vede, sente e pensa da sé, perché lo vedo quel sole sprecato lì sulle strade, perché lo so che siamo tutti dei fingitori.

A me succede che quella quotidianità di prima non mi manchi poi particolarmente, mi mancano alcune persone, pochissime in modo autentico. Mi manca l’allegria “illogica” di Gaber dietro la curva. Ma soprattutto mi manca il pilota automatico. Vorrei non essere svegliata ogni notte dallo stesso visitatore curioso, che viene a chiedermi “Allora, che cosa ne pensi? E dentro, che succede?”

Ho la nostalgia per lo stato di preoccupazione minore in cui vivevo prima. Non mi manca uscire per andare dal mio amico, mi manca che lui possa aprirmi la porta. E questa sconfitta la dobbiamo subire per forza.

Avete ragione tutti, e non credo che nessuno abbia mai davvero pensato che la colpa sia di chi corre al parco. Nessuno l’ha mai pensato, ma nessuno creda di sapere che cos'è la libertà, perché la libertà di correre è la libertà del cane.
La libertà di scegliere, invece...
Se ci sono colpe, sono precedenti, e di portata maggiore, ma lo stesso qui ciascuno deve fare la propria parte, e questa qui paradossale, di non farti domande, non interpretare, non staccare il tuo profilo da quello dello Stato, è comunque la parte che ti tocca.
Senza patriottismo, non saprei dove trovarne in me neppure se una nazione nemica ci invadesse con i carrarmati. Ma l’appartenenza, quella ce l’abbiamo tutti, ne è prova la passione per il calcio, per il mandarsi affanculo l’un l’altro. La polarizzazione politica è appartenenza, niente più. Allora, dove la metto adesso l'appartenenza? la consegno allo Stato o me la riprendo e la tengo per me?

Io ho paura della polizia, non voglio che comandi sotto casa mia. Ma so anche di avere introiettato molto presto, troppo presto, che libertà è responsabilità… Come faccio però a dire “Guarda che quella di andare a spasso non è libertà”… Come posso? Vorrei dire che la libertà è dentro, come facevo con mia figlia su per le scale del primo giorno di scuola elementare… Ma lei rispondeva “Mamma, non hai capito”, e ripeteva: “Non ho più la libertà”. Come se io davvero non avessi sentito. Come se non vedessi la sua Contea di primavera perenne.
È che a parlarne, poi ci si inciampa nelle molte braccia della libertà stessa.

Non è davvero il caso di cercare colpe e colpevoli, anche perché poi sei costretto, di notte, a veder sfumare questa nettezza, ti vedi lì a rimpiangere, a immedesimarti… quel treno l’avresti preso anche tu? Tremebondo e sudaticcio, ti senti così incapace di capire, di abbracciare una qualche visione.
Forse la mia idea di libertà è misera? Forse non è reale? Forse, se non potessi più raggiungere mia figlia, la mia idea di libertà si rivolterebbe da dentro a fuori come un guanto, e tra la mia e la libertà del cane non ci sarebbe più alcuna differenza.

Ma tutto questo orientare il discorso su libertà, democrazia, dittatura, stato di polizia, la mano nell’ombra… ok, fermiamoci. Tutto questo discorso, ancora una volta, dovrebbe passare per canali più sottili, e senza appartenenza, questa volta. Dovrebbe passare da una riflessione storica.

Io mi aggrappo solo a questa idea, che tra una dittatura e uno Stato che esercita misure estreme di coercizione temporaneamente ed eccezionalmente c’è di mezzo una Costituzione. Devo pensare che sia così fragile? Sì, forse, se essa è concepita fragilmente nel nostro pensiero.
Non dovremmo polarizzarci, dovremmo sorvegliare tutti insieme su questa democrazia. Anche perché nel conflitto tra Stato e individuo, l’individuo non può che uscirne malconcio…
Ma neanche di questo sono così sicura, e temo che ormai, mentre scrivo, il conflitto sia già deflagrato e che i soldati siano in marcia.

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