lunedì 16 maggio 2016

SUL BORDO DEL LETTO


Molte volte, quando mi sveglio dai miei sogni la mattina, è come una lampadina che si fulmina.
Un attimo prima era tutto lì a portata di mano, le storie, le loro architetture pazzesche, personaggi misti, ibridi. Personaggi, dottore, non persone, personaggi come fossero di celluloide, morti che vivono di nuovo e parlano con me, mi parlano di chissacché.
In un secondo tutto si fulmina, con il caratteristico sibilo elettrico di cose che si cimiscono. Scompare al buio del mio risveglio.

Lo vede dottore, lo vede anche lei che non ne resta niente.
Se per una notte ci siamo arrampicati attraverso cunicoli e sentieri introvabili, se ci siamo persi e ripersi ancora, se si muovevano i pavimenti, parlavano i muri, vorticavano le stagioni... Beh al mattino c'è un letto immobile ed un soffitto incredulo.
Allora brancoliamo alla ricerca di qualche frammento di quelle primavere e di quegli inverni, che ci portano la neve a luglio. Ci danniamo all'inseguimento di quelle parti di vita dove voliamo, e precipitiamo, e corriamo coi piedi di cemento, urliamo col terrore che non ci esca la voce, e la voce non esce, resta chiusa in qualche imbuto dell'anima.

Potessimo ricordare qualcosa di più, com'è che si fa a respirare sott'acqua, o come facilmente moriamo per una cosa andata storta, come saltiamo da un ponte... se ricordassimo le nostre traversate in mezzo al mare, le tempeste, le avventure.
Se avessimo memoria, dottore, di quante notti passiamo in compagnia dei nostri amori.

E ora, all'improvviso, le cose che non so e non posso ricordare, sembrano essere diventate ciò che più conta dottore, tiranne delle mie fibre mortali.
La lampadina fulminata sparge uno spruzzo di fuliggine, e quello va a posarsi su ogni cosa. Bisogna seguirne al buio le tracce, bisogna trovare.
Trovare cosa dottore? Che cos'è che nascondo?
Io e lei, qui a caccia.

Beh, sarà ingenuo da parte mia, ma a volte credo di poterlo stanare, quel desiderio demente di non sapere, che tiene lontano, questo desiderio omicida, questo boia della mia vita perduta, riportata così tante volte indietro e dimenticata di nuovo. E spesso mi inganna, su false piste, con piccole fitte di dolore.
Quanto male può mai portare avere dimenticato, avere mentito? La lampadina che zac, si fulmina la mattina, la sera, il giorno, per tutta la vita. Sul bordo del letto, sui fili di lana dei nostri funambolismi.

No, non protegge dottore, questo inganno espone. Al rischio di uccidere se stessi per salvare un altro che volevamo essere ma che non riusciamo mai a essere (o è qualcuno che dovevamo essere?)
Ma per che cos'è che lo facciamo? È per questo camminare lungo corridoi illuminati dal neon con la meta sicura di una scrivania tutta nostra, dove ci chiamano "dottoressa"?
È per questa bella casa in ordine?
È per questo che noi fatichiamo e sudiamo tutta la nostra forza, sacrificando quelle visioni a picco su città paradossali, dove viaggiamo come argonauti, padroni di tramonti e albe che sappiamo far durare anche una notte intera?

Per che cos'è che lo facciamo? Per cosa uccidiamo l'altro in noi?
Per far contenti i nostri? Per quello smisurato e devastante amore per loro?
È perché eravamo bambini troppo sensibili?
È per questo apparato appiccicoso che indossiamo col nome di vita, che uccidiamo quell'altra di vita, al mattino?
È per questo mondo che noi temiamo tanto quell'altro?

E non abbiamo fatto un piacere a nessuno, non ha gioito né l'una né l'altra vita in noi, due malati di cuore, votati alla malinconia.
Non avremmo dovuto dimenticare mai, non avremmo dovuto lasciare depositare nulla sul fondo.
Perché non abbiamo lasciato vivere quella vita che il boia ha falciato?

Noi guardiamo i nostri amici ridursi come ombre, e ci dimentichiamo di quando li abbiamo incontrati.
Noi sopportiamo come schiavi le nostre scelte, i nostri dubbi, le nostre perdite, e scordiamo le parole che li potrebbero raccontare, scordiamo di guarire dal male, come se il male non ci fosse stato.
Liquidiamo la violenza dei nostri sogni, le curve pericolose che affrontiamo in essi su slittini e aeroplani, le invasioni di insetti, le guerre, i pianeti, le ere, i morti e i personaggi, li dimentichiamo con una leggerezza spaventosa.

Ma se è vero che dimenticare uccide, dottore, all'uccisore resta un cadavere da seppellire, e dopo, solo croci ed un prato umido.
In me invece ogni mattina langue un ferito.
L'odore di bruciato, il sibilo che inseguo, il lieve schianto del filo che si rompe, che mi lascia lì a metà, stupida.
Ecco perché invidio ferocemente chi dice che non sogna, quelli a cui la lampadina si fulmina prima ancora che la sveglia rompa il buio.
Un meccanismo perfetto.
Il mio è difettoso dottore, mi lascia intravedere.





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